La forma delle cose fatte a regola d’arte e le eccezioni (poche) che confermano la regola.
Questo vorrei fosse il titolo di questo blogpost, non fosse che la seo se ne andrebbe a ramengo. Perciò lo infilo subito sotto il titolo della ricetta, perché mi urge parlare di questa cosa, ovvero del fatto che oggi esistono ancora parole che tuttavia – nel tempo – hanno perso peso e una di queste è forma. Pare infatti che un’idea sia sufficiente per una qualsiasi messa in scena. Mh.
Io la penso in modo diverso: forma non è apparire come semplice manifestazione, quanto piuttosto architettura, equilibrio e proporzione. È il modo in cui la sostanza trova la sua tenuta, se è vero che senza sostanza non c’è forma. Su questo siamo d’accordo, o no?
Bene, accettato questo passiamo al dire che saper dare forma alla sostanza è mestiere ed è questa è la ragione per cui diffido della destrutturazione – e mica solo in cucina – anche nei pensieri, nei progetti, nelle persone.
Mi pare celi un gesto incompiuto, che sia un modo per travestire da scelta ciò che è, in realtà, un’incapacità. Perché smontare è facile: basta un colpo secco e tutto si scompone. Ma tenere su è altra cosa, e quello no che non è facile. “Tenere su” richiede misura e conoscenza, ma anche la pazienza che appartiene solo a chi sa che ogni forma di bellezza si regge su un equilibrio fragile e che ogni minima deviazione può comprometterla.
Questo pensiero mi è venuto mentre osservavo i busti di Canova a Possagno, qualche giorno fa.
Nei modelli di gesso conficcava minuscoli chiodi per riportare nel marmo le proporzioni perfette. Quei chiodi invisibili erano prima sostanza e poi forma. Erano i custodi della forma: non si vedevano, ma senza di loro tutto avrebbe ceduto o, semplicemente, non sarebbe stato. Ma i chiodi da soli che sono, senza il gesso? E’ il saperli mettere insieme la vera arte.
Ma torniamo coi piedi per terra, parliamo di cose più volgari nel senso più autentico del termine. Lasciamo l’arte per la cucina, luogo eletto in cui nasce la mia diffidenza verso la mania della “destrutturazione”: perché se la forma è la tenuta della sostanza, allora un dolce scomposto non è affatto libertà di creazione ma amputazione.
Il più crocifisso di sempre dalle destrutturazioni? il tiramisù, ça va sans dire. Troppo spesso servito in vesti “creative”, manco fosse un simbolo di modernità: un savoiardo adagiato sul piatto, una tazzina di caffè accanto, una ciotola di crema a parte e zucchero a velo stile valanga sopra. Questo quando non raggiungiamo vette inarrivabili con fragola e foglia di menta a bordo piatto.
Non ho altre formule espressive per definire questa pratica se non un’autopsia mascherata da savoir faire. Mi sono fatta questa idea nel tempo: che chi lo serve smontato lo faccia per due ragioni: perché non sa costruire oppure non ritiene importante trovare il tempo per farlo. E non lo dico per nostalgia: lo dico per rispetto, rispetto per quelle cose fatte a regola d’arte, quelle cose che nel passato hanno trovato la loro compiutezza nell’espressione completa di mix di ingredienti resi armonia da un gesto.
Perché un dolce, per esistere davvero, ha bisogno di quella tensione interna che lo tiene insieme.
Un tiramisù vero ha la sua grammatica: strati, immersioni, texture. Possiamo chiamala fisica del gusto? E diciamolo.
E no, un biscotto appoggiato accanto non restituisce il prodotto finito e quindi toglie dignità al tutto. Ti lascia con l’idea di qualcosa di incompiuto. Esattamente come in arte non basta un verso spezzato per fare poesia.
Ecco perché, davanti a certi dessert “concettuali” mi torna in mente il concetto di bellezza di Vitruvio (dai, la voglio fare nobile anche se spesso a tavola mi piglia solo l’esaurimento): per lui questa era un mix di solidità, funzione e grazia. Tre pilastri immancabili che reggono un tempio oppure un dolce, o ancora una frase ben costruita. E che spiegano perché, quando manca la struttura, non resta che la posa.
Non è solo questione di estetica: è una questione di onestà. Di adesione al senso profondo delle cose fatte bene. Per questo da sempre, nei dolci, non cerco la scorciatoia né solo l’effetto; ciò che mi interessa è la coerenza, la fedeltà, esattamente quella che tiene insieme gusto e memoria. Perché certi ingredienti solo mescolati in un certo modo restituiscono un sapore preciso che è ricordo e memoria.
E la pasticceria una sua precisa sintassi ben scandita da regole.
Detto questo, ci sono eccezioni. E sono quelle che confermano la regola, non la negano. Come questa tarte.
Una tarte vegana, sì — che ho provato a costruire con la stessa disciplina di una classica. Nessuna pretesa di alleggerire o di rivedere la crostata tradizionale, che per me resta un sapore imbattibile, ma il desiderio di valorizzare ingredienti nati con uno scopo preciso: maggiore leggerezza e digeribilità. Ho provato a realizzare una frolla che avesse gli zuccheri della frutta, un tentativo che mi stuzzicava da un po’ e una farcia senza latticini e troppi zuccheri. La natura di questa Crostata con pasta frolla alla pera e panna cotta al cocco è diversa, non ha pretese di essere ciò che non è, e si lascia mangiare, eccome.
Insomma: sta in piedi, e lo fa con grazia.



Crostata con pasta frolla alla pera e panna cotta al cocco (veg)
Ingredienti
Per la frolla (Ø 23 cm)
170 g preparato VitaMill® Ricco in Magnesio e Potassio
70 g farina di nocciole
80 g pera soda pelata
120 g olio di cocco
25 g zucchero di cocco
1 cucchiaino di cannella in polvere
Per le pere alla cannella
3 pere medie
1 cucchiaio di olio di cocco
1 cucchiaino di cannella in polvere
Una spolverata di vaniglia in polvere
Per la panna cotta al cocco
400 ml latte di cocco intero in lattina (con il suo grasso – almeno 60% estratto di cocco)
20 g sciroppo d’agave
3 g agar agar in polvere
½ baccello di vaniglia o ½ cucchiaino di estratto naturale
1 pizzico di sale marino fino
Procedimento
- Prepara la frolla.
Pela la pera e frullala fino a ottenere una purea liscia. In una ciotola unisci la purea di pera, l’olio di cocco fuso, lo zucchero di cocco e la cannella. Aggiungi le farine e lavora fino a ottenere un composto sabbioso, poi impasta brevemente fino a formare una massa compatta. Se serve, aggiungi qualche goccia d’acqua.
Avvolgi l’impasto nella pellicola e lascialo riposare 30 minuti in frigorifero. - Cuoci la base.
Stendi la frolla tra due fogli di carta forno (4 mm di spessore) e fodera una teglia da 23 cm. Bucherella il fondo, copri con carta forno e legumi secchi. Cuoci a 170 °C per 15 minuti, poi togli i pesi e continua per altri 5–8 minuti. Lascia raffreddare. - Prepara le pere.
Taglia le pere a dadini, scaldale in padella con l’olio di cocco, la cannella e la vaniglia per 3–4 minuti finché diventano morbide e dorate. Lascia raffreddare. - Prepara la panna cotta.
Pesa l’agar agar con precisione e scioglilo a freddo in qualche goccio di latte di cocco con una frusta. Aggiungi il resto del latte di cocco dopo averlo agitato e aggiungi lo sciroppo. Versa in un pentolino e poni sul fuoco a fiamma medio-bassa. Dal momento del bollore frusta sempre per circa 7 minuti (controlla per precisione le indicazioni sulla bustina di agar agar) e infine togli dal fuoco. - Assembla.
Lacca il guscio di frolla con del cioccolato fondente fuso per evitare che si inumidisca.
Distribuisci le pere, elimina il baccello di vaniglia e versa la panna cotta ancora tiepida ma non calda.
Lascia raffreddare a temperatura ambiente, poi trasferisci in frigorifero per almeno 3 ore. - Servi.
A piacere, completa con nocciole tostate tritate e una spolverizzata di cannella.






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